Pianga Venere, piangano Amore
e tutti gli uomini gentili:
è morto il passero del mio amore,
morto il passero che il mio amore
amava piú degli occhi suoi.
Dolcissimo, la riconosceva
come una bambina la madre,
non si staccava dal suo grembo,
le saltellava intorno
e soltanto per lei cinguettava.
Ora se ne va per quella strada oscura
da cui, giurano, non torna nessuno.
Siate maledette, maledette tenebre
dell’Orco che ogni cosa bella divorate:
una delizia di passero m’avete strappato.
Maledette, passerotto infelice:
ora per te gli occhi, perle del mio amore,
si arrossano un poco, gonfi di pianto.

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Se dio vorrà, uno di questi giorni,
mio Fabullo, da me cenerai bene:
ma con te porta una cena abbondante
e squisita, una ragazza in fiore,
vino, sale e tutta la tua allegria.
Solo cosí, ripeto, amico mio,
cenerai bene, perché il tuo Catullo
ha la borsa piena di ragnatele.
In cambio avrai un affetto sincero
e tutto ciò che è bello e raffinato:
ti darò un profumo che la mia donna
ha avuto in dono da Venere e Amore.
Quando l’odorerai, prega gli dei,
Fabullo mio, di farti tutto naso.

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È primavera, tornano i giorni miti
e la brezza leggera dello zefiro
spegne nel cielo la furia dell’inverno.
Lasciamo i campi della Frigia, Catullo,
le pianure fertili e afose di Nicea;
via in volo per le città luminose dell’Asia.
Irrequieto ti brucia una febbre di andare
e nel desiderio ritrovi la tua forza.
Addio, dolce compagnia di amici:
partiti insieme dalla patria lontana,
ognuno per strade diverse ritorneremo.